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Ultimo aggiornamento il 18/06/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

E’ vero, nel nostro Paese a pagare l’Irpef (imposta dei redditi delle persone fisiche) sono prevalentemente i lavoratori subordinati e i pensionati. Tuttavia, fin dall’introduzione dell’Irpef, a inizi anni settanta, con la Riforma Visentini che seguiva lo studio della Commissione Cosciani, il fisco ha subito innumerevoli riforme.

La riforma degli inizi anni '70 prevedeva un sistema con 32 aliquote, molto progressivo, che andavano dal 10% al 72% nello spirito forse più vicino al dettato costituzionale, che all’art. 53 recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Dagli inizi anni '80, dopo le crisi internazionali e gli shock petroliferi, il sistema fu riformato con l’introduzione di 9 aliquote che andavano dal 10% al 50%, e una sostanziale riduzione del peso del fisco. In seguito negli anni novanta le riforme portarono nuova riduzione di aliquote prima a 7 e poi a 5, dal 19% al 45%, e dagli anni 2000 si stabilizzarono su 5 aliquote dal 23% al 43% per circa un ventennio, fino al 2022 con l’introduzione di 4 aliquote negli stessi limiti (23% e 43%). Ogni governo ha cercato di perseguire la riduzione delle tasse, sostituendo, spesso, il mancato aumento di salari monetari da parte delle imprese alla riduzione degli oneri fiscali e contributivi, come anche avvenuto nell’ultima legge di bilancio. Sovvenzionando, quindi, indirettamente, aziende che altrimenti non riuscivano a stare sul mercato o aiutando altre aziende a fare profitti più alti. Dal 2024 si effettua una ulteriore riduzione a tre aliquote (23%, 35%, 43%) e di tanto in tanto si parla, a sproposito, della necessità di arrivare ad una tassa unica e piatta (la flat tax).

La maggiore semplificazione del fisco e la riduzione delle aliquote non ha portato a quella che è una nostra grande piaga sociale, l’evasione fiscale, tranne negli ultimissimi anni, dove, grazie ai pagamenti con carta, all’introduzione della fattura elettronica, al cashback, anche se in vigore per troppo poco tempo (e non alla riduzione delle aliquote), si è fatto un passo avanti con la riduzione dell’evasione fiscale e contributiva da circa 130 mld a poco meno di 100 mld.

Inoltre, e a ben vedere, la flat tax esiste già, per coloro che hanno redditi non da lavoro, e che generalmente sono i più ricchi: coloro che percepiscono redditi da capitale finanziario e redditi da immobili (ad esempio vi è una aliquota flat e fissa al 12,5% per i rendimenti dei Btp, del 26% per i dividendi, del 21% per gli immobili in affitto, che scende al 10% nei casi di affitto concordato). Per non parlare della flat tax per gli autonomi, al 15%, per i ricavi fino a 85 mila euro come da ultima modificata dal Governo Meloni.

A ciò, l’ultima legge di bilancio per il 2024 aggiunge una flat tax incrementale, fino a 40 mila euro di maggiore reddito di impresa e di lavoro autonomo, conseguito nel triennio precedente, quando l’inflazione galoppante ha favorito proprio chi poteva decidere i prezzi (come molti studi hanno dimostrato), ovvero imprese e autonomi, mentre ha sfavorito chi i prezzi li subiva ovvero lavoratori dipendenti e pensionati.

In sostanza il sistema fiscale di oggi è già molto vantaggioso per i ricchi, e la riforma fiscale del Governo Meloni aggrava le iniquità e favorisce i più ricchi.

In tutti questi decenni di riforme, tuttavia, il fisco non ha aiutato la crescita reale dei salari dei lavoratori dipendenti, dal momento che essi sono risultati stagnanti, nei livelli medi. Questo non vuol dire che i salari di tutti non siano cresciuti, perché sappiamo che pochi, il top 5% della distribuzione del reddito, ha avuto un incremento notevole dei redditi.

Come dimostra un articolo di Guzzardi, Palagi, Roventini e Santoro di recente pubblicato su Journal of the European Economic Association, il sistema fiscale italiano oramai è poco progressivo, e anzi nella fascia alta diventa regressivo, con il 5% più ricco dei contribuenti che paga meno imposte del resto della popolazione, con una aliquota effettiva che scende fino al 36% per chi supera i 500 mila euro. La riforma fiscale del Governo accentua questa regressività.

Proprio nei giorni della riunione del World Economic Forum di Davos della scorsa settimana, OXFAM pubblicava il suo rapporto sulle disuguaglianze, da cui emergono tre cose: 1) i ricchi diventano sempre più ricchi, 2) i poveri, a cui è stato tolto il Reddito di cittadinanza, sprofondano nell’indigenza assoluta, 3) il ceto medio si restringe e vede eroso il suo potere di acquisto, per via dell’inflazione e della mancanza di salari adeguati, rinnovi di contratti e minimi legali. Nello specifico: il numero dei miliardari italiani è cresciuto da 36 a 63, con un valore patrimoniale aumentato del 46% e pari a 218 miliardi di dollari a fine 2023. La ricchezza detenuta dal 20% più povero si è dimezzata, passando dallo 0,51% allo 0,27% (ed in questo vi è anche la ri- duzione delle risorse destinate al Rdc che già dall’estate del 2023 hanno cominciato a ridursi).

Il ceto medio, è sempre più sofferente, e anche secondo l’ultimo rapporto di Banca d’Italia appena pubblicato (Conti distr butivi sulla ricchezza delle famiglie) nell’ultimo decennio, la quota di ric- chezza detenuta dal 50% più povero è passata dall’8,3% al 7,8%, e conte- stualmente il 5% più ricco ha visto crescere dal 40% al 46% la sua ricchezza. In queste condizioni OXFAM propone tre cose: il ripristino del reddito di cittadinanza, il salario minimo, e una tassa patrimoniale sopra i 5,4 milioni di euro, da applicare quindi allo 0,1% più ricco della distribuzione, che porterebbe circa 15 miliardi di euro all’anno in Italia (due volte il valore del Rdc). Una tassa patrimoniale di questo tipo dovrebbe però essere applicata in tutti

i paesi dell’UE per avere una sua efficacia, per ridurre le disuguaglianze, e per catturare ricchezze che nel capitalismo finanziario guidato dalle rendite oggi eludono il fisco e rimangono ultra mobili anche nella eurozona. Questo permetterebbe ad esempio il finanziamento di politiche sociali nell’UE, come un reddito di cittadinanza europeo.