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Ultimo aggiornamento il 18/06/2024

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Un'idea di Carlo Meoli

Lavoretti intermittenti e frammentati, guadagni molto bassi. Più che un metodo di ingresso nel mercato del lavoro, come qualcuno si ostina a definirlo, il contratto a tempo determinato sembra – nel nostro Paese – una formula che in realtà spezzetta le carriere, le rende molto discontinue e quindi si traduce in impieghi poveri. Lo dicono i dati Inps rielaborati dalla Cgil, che ieri ha diffuso il report: in Italia gli addetti a termine sono in servizio mediamente per soli 155 giorni all’anno e guadagnano meno di 11 mila euro lordi. I settori che più di tutti contribuiscono a creare questi lavoretti sono perlopiù legati al turismo: le agenzie di viaggio e noleggio, i servizi alle imprese, gli alberghi e i ristoranti. Ma anche la scuola pubblica, con il suo consueto esercito di oltre 200 mila supplenti precari, dà un apporto molto significativo, così come la Pubblica amministrazione in generale che in totale arriva a mezzo milione.

Con questa iniziativa, il sindacato vuole lanciare una campagna contro la precarietà, annunciata nelle scorse settimane dal segretario Maurizio Landini. La segretaria confederale Cgil Maria Grazia Gabrielli ha ricordato i diversi interventi anche di questo governo che tendono a favorire ulteriormente i rapporti a tempo determinato: per ultimi, il decreto del primo maggio, il relativo collegato lavoro e il decreto Pnrr. Quello presentato ieri, quindi, è il primo focus di questa campagna, che si basa sui dati del 2022. In Italia i lavoratori a tempo determinato sono circa 3 milioni, secondo l’Istat. Tuttavia, se consideriamo tutte le persone che nel corso di quell’anno hanno avuto rapporti a termine – quindi non solo al momento della rilevazione – arriviamo quasi a 4 milioni, senza contare tutto il settore agricolo che è fatto praticamente per gran parte da operai a tempo determinato. Come detto, il numero di giornate lavorative effettive dei precari è basso: in media sono operativi per metà dell’anno. E la circostanza è spiegata dal fatto che spesso a impiegare queste persone sono settori legati alla stagionalità: se consideriamo che il 21% opera nelle agenzie di viaggio e noleggio e supporto alle imprese, mentre un altro 15% nelle attività di alloggio e ristorazione, praticamente almeno uno su tre è nel turismo.

La precarietà non è uguale in tutti i settori. Per esempio, mentre la media di giornate lavorative nella manifattura è di 177, in alberghi e ristoranti questa scende a 115. Ben più alta quella nell’istruzione, che si attesta a 196. Il settore alloggio e ristorazione ha anche la retribuzione media giornaliera più bassa, poco superiore ai 49 euro.

Insomma, mentre di solito i contratti a tempo determinato vengono presentati, da chi vuole incentivarli, come il canale di entrata verso impieghi stabili, i dati raccontano una storia diversa: la precarietà in Italia è sinonimo di sotto-occupazione, incostanza di reddito e quindi è tra le cause dei problemi salariali. Il 48,9% dei nostri lavoratori a termine ha meno di 35 anni. Gli uomini rappresentano il 52,4% del totale, ma ovviamente è un dato che risente di un fattore: il tasso di occupazione maschile è molto più alto di quello femminile, quindi è evidente che – visti i numeri quasi appaiati – la popolazione femminile è molto più colpita dal precariato.

Questi numeri raccontano molto della qualità del nostro mercato del lavoro, oltre gli annunci che parlano di grandi risultati. Proprio i dati Istat usciti mercoledì confermano infatti che il 2023 non è stato affatto l’anno dei record di occupazione. Infatti, nell’anno appena passato le ore lavorate complessive – indicatore ben più utile per misurare lo stato di salute della nostra economia – sono state 44,8 miliardi. Un dato ancora molto al di sotto rispetto a quelli del 2006 (con 45,2 miliardi), del 2007 (con 45,9 miliardi) e del 2008 (con 45,8 miliardi). In pratica, non abbiamo ancora nemmeno recuperato la crisi del 2008. La ripresa dalla recessione, e anche quella dal Covid, si è molto basata su lavori precari e part time, perciò le ore lavorate sono ancora in numero molto inferiore. Resta da chiedersi che cosa accadrà quando si esauriranno gli effetti di Pnrr e Superbonus, visto che – rispetto al pre-Covid – l’edilizia è il settore che segna la crescita maggiore di ore lavorate, seguita dai servizi. L’industria segna praticamente gli stessi livelli del 2019, mentre l’agricoltura registra una perdita (e questo spiega anche le mobilitazioni dei trattori).